Cari Cervelli in fuga, l’Italia non vi vuole. Incentivare il ritorno? Macchè, ecco la scure
Da decenni va in onda la lamentela, come paese, sull’inarrestabile diaspora dei giovani. Ogni anno, l’Italia perde migliaia di “cervelli” che vanno a lavorare all’estero perché il Belpaese non offre prospettive e la meritocrazia latita. Ufficialmente ci sono 1,3 milioni di giovani emigrati. Ma un recente uno studio, della Fondazione NordEst e dell’associazione TIUK, i talenti italiani nel Regno Unito, ha stimato che il numero effettivo di chi, negli ultimi 10 anni, ha detto addio al paese è tre volte tanto: 3 milioni di cervelli fuggitivi.
Non c’è solo un tema di emigrazione, ma anche economico. Lo Stato italiano spende miliardi per la scuola pubblica: istruisce giovani che poi vanno a lavorare all’estero. Confindustria ha calcolato che la fuga dei cervelli costa 14 miliardi di euro all’anno al paese.
Incentivi per tornare in Italia
Per frenare il fenomeno del Brain Drain, anni fa l’Italia ha pensato di convincere un bonus fiscale. Era una mossa tardiva, altri paesi ce l’hanno da decenni, ma andava nella direzione giusta. Meglio tardi che mai.
Le condizioni sono molto vantaggiose: chi decide di rimpatriare gode del 70% , o anche 90%, di sconto sulle tasse (Irpef) per 5 anni, o addirittura 10 anni per chi ha figli minorenni (o compra casa).
Ma al nuovo Governo Meloni, che da un anno guida il paese, devono essere sembrate troppo generose. Dal 2024, peraltro con pochissimi mesi di preavviso, lo sconto fiscale scende al 50%, si riduce a 5 anni per tutti, sarà possibile solo per lavoratori qualificati, e solo per chi viene assunto da una nuova azienda.
Cari Giovani, non tornate
In un paese disastrato e disfuzionale come l’Italia, serve un incentivo sostanzioso per convincere un emigrato a tornare. Se uno deve sopportare una burocrazia asfissiante, una pubblica amministrazione elefantiaca, servizi pubblici da Terzo Mondo, e corruzione dilagante, il minimo che uno Stato possa offrire è un alto incentivo fiscale.
Ed è qui la totale disgrazia della decisione. Prendiamo l’esempio della Gran Bretagna, il paese con più emigrati italiani (circa 700mila): un lavoratore di fascia media paga attorno al 30% di tasse sul reddito, un manager di fascia alta è attorno al 40%, mentre stipendi bassi pagano pochissime tasse o addirittura niente (c’e una No Tax Area). Una detassazione al 70%, com’e stato finora, rende Italia concorrenziale dal punto di vista fiscale. Ma se la detassazione scende al 50%, non c’è più convenienza, perché il prelievo fiscale italiano si allinea grosso modo a quello del Regno Unito, ma non con gli stessi servizi o opportunità. Perché tornare, allora?
Un paese inaffidabile
Cambiare le regole in corsa, è tipico dell’Italia. Ma crea confusione e destabilizza le persone. “Questa normativa e’ stata cambiata molte volte negli anni – ricorda Donatello Pirlo, fondatore della boutique di consulenza londinese Statura – ma fino a oggi tutte le modifiche hanno aumentato l’attrattività del paese. Un cambio di rotta in direzione restrittiva, non è auspicabile. Senza entrare nel tecnico, trovo che questa rivisitazione della normativa rimpatriati, anche se solo parziale, mandi un messaggio di incertezza ai contribuenti e crei dubbi sulla credibilità del nostro legislatore in tema fiscale”.
Un rimpatrio è un processo che, nel caso di una famiglia, richiede almeno 1 anno di pianificazione, tra scuole e alloggio. Cambiare la normativa, con così pochi mesi di anticipo, mette molte famiglie in serie difficoltà.
Gli errori di una mossa sbagliata
I Cervelli di Rientro sono per lo più persone con alto potere di spesa, che danno una spinta ai consumi interni, cosa di cui l’Italia ha un disperato bisogno: solo di IVA, in termini di maggiori consumi, il fisco probabilmente recupera tutto quanto concesso come sgravio. Per esempio a Milano, il mercato immobiliare sta in piedi grazie ai rimpatriati dal Regno Unito che stanno comprando appartamenti di pregio.
La Lega medesima, il cui ministro Giancarlo Giorgetti è stato il promotore della scure sui rimpatriati, si è resa conto del passo falso. Tanto che il deputato Simone Billi, eletto tra le fila degli italiani all’estero, ha fatto un’interrogazione in Parlamento chiedendo correttivi.
Perché cambiare, in peggio?
Il problema però non è il correttivo. Quieta non movere, dicevano i Latini. Se un provvedimento funziona e ha successo tra i cittadini, perché cambiarlo, è addirittura in peggio? Il messaggio indiretto che Italia manda ai giovani, con questa marcia indietro, è: “Rimanete dove siete, non vi vogliamo indietro”.
“Non si deve rientrare in Italia per il solo motivo fiscale – commenta il professor Brunello Rosa, presidente di TIUK e docente alla LSE (Lonson School of Economics) di Londra – ma se si vuole che i giovani emigrati decidano di tornare a vivere nel loro paese, ci vuole un incentivo che compensi le conseguenze della scelta”.
La motivazione ufficiale è debole, se non fuori luogo: truffe e abusi. Ma il Rientro dei Cervelli non è il Superbonus (dove peraltro gli emigrati sono stati penalizzati): numeri e ammontare dei rimpatriati non sono lontanamente comparabili con quelli delle ristrutturazioni edilizie.
Italia deve chiarirsi le idee e decidere se davvero vuole riprendersi i Cervelli che ha lasciato fuggire, oppure no. I segnali che manda al mondo, come sempre, sono contradditori e confusing (oltre che autolesionisti).
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