Un anno dopo, a Londra, l’Ucraina è una guerra da “radical chic”: vince il marketing

Lungo Old Brompton Road, strada che dal quartiere di Chelsea porta a Fulham, accanto allo storico Trobadeur, locale cult londinese di musica dal vivo che ha lanciato tantissimi artisti, da qualche mese è apparsa una insegna molto fighetta e di design: è quella di un nuovo ristorante. Si chiama “Mriya” e serve cucina ucraina. Alla porta l’ormai immancabile bandiera giallo-blu. La bandiera dell’Ucraina, che nella capitale impazza ovunque, è il nuovo logo alla moda; ha pure scalzato bandiere arcobaleno e Pride vari.
A un anno dallo scoppio della Guerra in Ucraina (perché è una guerra e non un’invasione della Russia, come piace dire alla “narrazione” dominante unilaterale, la tragedia di Kiev a Londra si è trasformata a Londra solo nell’ennesima tendenza, in una strategia di marketing, un modo per essere “in”.
Il caso Mryia
Nell’epoca dei social media, della comunicazione totale e totalizzante, il vocabolario è cruciale: il Mryia non è un semplice ristorante, ma un Bistrò. La parola in francese fa esotico, raffinato, chic. Il locale è stato aperto da un profugo ucraino scappato dagli orrori di Putin? No a inaugurare il Mryia, che in ucraino vuol dire “sogno”, è una star della tv: Yuri Kovryzhenko. Lui è il Carlo Cracco, o l’Antonio Cannavacciuolo, dell’Ucraina, un cuoco celebrità. Scoppiata la guerra era all’ambasciata ucraina di Londra a preparare una cena e non a Kiev (essere una chefstar ha i suoi vantaggi). Di lasciare Londra, e ritornare al suo paese in guerra non se l’è sentita “perché non ne ho le competenze” per andare in guerra, ha spiegato alla stampa britannica (come se invece le reclute dell’esercito Ucraino se la sentano o siano ben addestrate). Rimanendo a Londra, però, ha raccolto 500mila sterline di donazioni, organizzando cene in nome della sua “Povera Patria”.

E come ha usato quei soldi? Ha aperto il suo ristorante, il Mryia appunto, dove conta di “elevare la cucina ucraina, distrutta dal comunismo a pochi piatti”. Un nobile scopo, ma che non pare proprio una priorità mentre i russi bombardano il Donbass e occupano la Crimea. Che fine faranno eventuali utili che arrivano dal ristorante? Yuri ha promesso di donarli all’Ucraina. Un buon intento, ma rimane il dubbio che, a Londra, ormai l’Ucraina sia un immenso greenwashing, che la guerra sia solo un’opportunità commerciale. E che qualsiasi cosa abbia il nome Ucraina sopra sia buona e giusta, solo perché si chiama appunto Ucraina.
Prima ancora di aprire i battenti, già fioccavano recensioni a 5 stelle per il ristorante: la rivista TimeOut, una sorta di ViviMilano di Londra, si sperticava di lodi senza aver aver assaggiato mezzo piatto. Nel menù dello chef ucraino compare il borsch, la tradizionale zuppa di rape, che però forse è un piatto di origine russa e/o polacca (gli storici non ne sono certi). Ma tanto chi va a sottilizzare, sempre Est Europa è. Dove finisce l’informazione e dove inizia la pubblicità, o peggio la propaganda, è davvero difficile dirlo in questi tempi confusi.
Balletti & Appartamenti da Paperoni
Il caso di Mryia e del celebrity chef Yuri non è l’unico, anzi: a Londra spopola tutto quello che ha a che vedere con l’Ucraina. Nella metropolitana è pieno di cartelloni che pubblicizzano l’Ukranian Ballet. Leggendo bene, la sensazione è che sia tutta una trovata commerciale: solo l’impresario dello spettacolo è un ucraino, ma peraltro arrivato a Londra decenni fa. Lo scopo è nobile: gli incassi andranno alle associazioni umanitarie che aiutano le vittime ucraine della guerra. Mica tutti i soldi, però: solo gli incassi netti, ossia quello che rimane dopo aver spesato tutti i costi (teatro, troupe, artisti, ecc.). Dunque, prima la produzione rientra di tutti gli esborsi e poi quello che rimane, se ne rimane, andrà in beneficenza.

Passeggiando lungo la bellissima zona pedonale che fiancheggia tutto il Tamigi, all’altezza della Battersea Power Station, da una finestra di un lussuoso e moderno palazzo sventola una bandiera ucraina. Tutta la zone è costellata di edifici super lusso, tutti con pareti di cristallo, per esaltare lo “skyline”, dove un appartamento costa milioni di sterline. Ironia della storia: negli anni 70 Battersea non era una zona esclusiva, anzi. C’era una centrale elettric a carbone, simbolo della classe operaia, dell’Inghilterra dell’Austerity, tanto che i Pink Floyd, la leggendaria rock band molto politicizzata e molto antagonista al sistema, la scelse per la copertina di un loro famosissimo album. Oggi le ciminiere do Battersea non sputano più fuori smog e fumo, ma sono state trasformate in un esclusivo, e anonimo, complesso residenziale per ultra-benestanti, costellato di raffinate boutique, come il negozio della Van Moof, che vende bici elettriche olandesi da oltre 2mila sterline l’una (così Greta ringrazia), cinema e intrattenimenti vari. A completare il quadro di quegli appartamenti dai prezzi stellari, catene di ristoranti e bar, dove gli anti-putiniani e difensori della democrazia occidentale possono sorseggiare cocktail all’ultima moda con sottofondo di musica raffinata. Dodicie mesi dopo lo scoppio della guerra, l’Ucraina vista da Brompton e da Battersea è una guerra da radical chic, una “moda” intellettuale per gli happy few con il portafoglio saldamente a destra, ma cuore e profilo social a sinistra, che aiuta l’immagine. Esporre la bandiera la bandiera ucraina da una casa per Paperoni fa molto “cittadino responsabile”.
Una guerra da Radical Chic
In tutta Londra, non c’è scampo da questa invasione commercial-ideologica-buonista. Per esempio a Drury Lane, dal pennone del Royal Theatre sventola l’ennesima bandiera giallo-blu: è un teatro che risale al ‘700, ma da anni ormai ospita il musical Frozen, apoteosi della Disneyficazione del mondo, dove frotte di turisti pagano cifre assurde (199 sterline a famiglia) per vedere uno spettacolo “globalizzato” che nulla a che vedere con Londra o il Regno Unito. Niente di più lontano dai bambini ucraini che vivono nei bunker o nella metropolitana, ma con la bandiera dell’Ucraina anche un costoso ed effimero show sembra un evento serio e fa sentire “impegnati” gli spettatori.
A un certo punto, di fronte a Downing Street, la casa del Primo Ministro, era apparsa una bancarella che vendeva solo gadget ucraini: dalle t-shirt alle spillette , alle felpe ai cappelli. Il merchandising è un’altra versione della guerra da salotto.
Basterebbe un po’ di senso critico per essere scettici di fronte a questa fastidiosa e finta moda filo-ucraina imperante; per vederci dietro, in molti casi, solo opportunismo commerciale. Ma non c’è niente da fare: l’intellighentsia (uso una parola russa volontariamente) londinese è in luna di miele con Kiev, a prescindere. Luna di miele puerile, perché la semplicistica logica aggressore-aggredito funziona per due bambini che litigano alle elementari per la merendina. Il conflitto russo-ucraino ha, invece, radici storiche e colpe molto più profonde e antiche, egualmente divise tra Europa, Stati Uniti e Russia. E invece, tutto quello che ha sopra il logo “Ucraina” fa vendere. La bandiera giallo-blu mi ricorda il marchio della rosa de El Charro che negli Anni ’80 era stampata su qualsiasi jeans; o, per i più giovani, l’aquila gialla delle t-shirt Lyle&Scott.
Il popolo ucraino sta soffrendo, si potrebbe replicare. E in fondo questo marketing opportunista serve a sensibilizzare l’opinione pubblica su un problema serio. Vero, ma la sensazione che sia tutta una immensa foglia di fico è grande. Ma servono davvero ristoranti e balletti per sostenere l’Ucraina e stare dalla parte dell’Occidente contro la Russia sanguinaria? No. Tutto questo trambusto, alla fine, è solo consumismo, travestito da bontà.
Ucraina Sì, Uyguru no
Non tutti gli oppressi sono uguali, peraltro. Nella zona di Holborn il ristorante Tamir propone la cucina uyghuru. Gli Uyghur sono una minoranza religiosa cattolica perseguitata dal governo cinese, con torture e imprigionamenti di massa. Per loro, però, nessuna manifestazione, nessuna bandiera che sventola dai terrazzi di appartamenti milionari; nessuna recensione su TimeOut o articolasse di giornale a pompare il locale Tamir. C’è da capirlo: gli Uyghur non sono abbastanza fighi, non fanno abbastanza radical chic, non sono alla moda. Il ristorante, pardon il bistrò, ucraino è sempre pieno: andare a cena da Mryia aumenta l’autostima della Upper Class che abita a Chelsea. A loro basta sentirsi buoni e giusti, loro pensano di essere i kalagathòi dell’antica Grecia. Dall’altrettanto rappresentativo Tarim, emblema delle sofferenze degli Uyghur, la fila non c’è. Anzi, ogni volta che ci passo davanti con la bici non vedo mai il pienone. Consiglio non richiesto al ristorante cinese: provate a mettere una bandiera ucraina sulla vetrina. Sono sicuro che i clienti aumenteranno a vista d’occhio.